LA PRESENZA DELLA CONGREGAZIONE SACRA FAMIGLIA DI NAZARETH NEL MONDO

venerdì 31 luglio 2015

373 - PADRE PIAMARTA SACERDOTE


MARIO TREBESCHI

Quando don Giovanni Battista Piamarta fu ordinato sacerdote, nel 1865, il clero bresciano era in una situazione di notevole agitazione, a causa delle vicende dell’Unità d’Italia. I sacerdoti bresciani avevano seguito con favore il progressivo indebolimento del potere austriaco del Regno Lombardo-Veneto, nella prima metà dell’Ottocento, e appoggiato i moti delle guerre di indipendenza. Ma, raggiunta l’unità nel 1861, quando si trattò non più di essere contro un potere dispotico, ma di scegliere se partecipare e in che modo, al corso politico dell’Italia nuova, sorsero i problemi. Il governo italiano, infatti, di derivazione sabauda, aveva dei pregressi non favorevoli alla Chiesa, con le leggi Siccardi del 1850 e la legge Rattazzi del 1855, e i nuovi conquistatori delle zone del sud Italia, nel 1860, avevano imprigionato molti vescovi e sacerdoti e chiuso seminari.

Il clero bresciano nella seconda metà dell’Ottocento

Un decreto reale del 5 maggio 1861 fissò la festa dello Statuto dell’Italia unita alla domenica 2 giugno. La Sacra Penitenzieria, richiesta di un pronunciamento sulla partecipazione religiosa sulle celebrazioni di ringraziamento, espresse parere non favovorevole, perché si trattava di un evento politico. Parecchi sacerdoti bresciani non seguirono tale disposizione, anzi elogiarono pubblicamente l’Ottocento italiano e le sue figure più rappresentative, Camillo Cavour, Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi. Le prese di posizione di questi sacerdoti ebbero risvolti di notevole clamore, perché furono pubblicizzate dai giornali locali, talvolta per volontà degli stessi sacerdoti. Il vescovo Gerolamo Verzeri (1850-1883) mise in atto iniziative di persuasione per far rientrare questi sacerdoti nell’obbedienza. L’intervento del vescovo continuò anche negli anni seguenti, perché parecchi preti, nel 1862, firmarono l’indirizzo del gesuita Carlo Passaglia (1812-1887), secondo cui il papa doveva rinunciare al potere temporale. Il vescovo, appoggiato da Roma, impose ritrattazioni a questi sacerdoti e la loro partecipazione agli esercizi spirituali in segno di ravvedimento: l’azione del vescovo era di agire con fermezza, ma con prudenza, per non provocare rotture. Nel clero si erano formate due correnti: una, liberale, che chiedeva la rinuncia al potere temporale del papa e maggior attenzione della Chiesa allo sviluppo della nuova politica italiana; l’altra, intransigente, sostenuta dal vescovo e dal suo segretario don Demetrio Carminati, che proclamava l’obbedienza assoluta al papa.
Ma nuovi avvenimenti indussero il clero più entusiasta per i nuovi eventi a considerare che occorreva più avvedutezza di fronte alla politica italiana. Il 12 giugno 1866 venne arrestato il segretario del vescovo, Carminati, in episcopio, e imprigionato nelle carceri di Sant’Urbano di Brescia; sorte che subirono anche altri sacerdoti, i quali erano accusati di opposizione al nuovo corso dell’Italia liberale. Inoltre, le leggi di soppressione delle corporazioni religiose del 1866 e di incameramento dei beni ecclesiastici del 1867 mostrarono che la classe politica italiana non era affatto favorevole alla Chiesa. La presa di Roma del 1870 aggravò la tensione, per cui il papa vietò ai cattolici la partecipazione alla vita politica italiana (Non expedit). Seguirono anni di grave tensione tra l’Italia e la Chiesa, ma anche di accesa discussione tra gli stessi cattolici, sacerdoti e laici, tra chi sosteneva la neutralità totale della Chiesa da interessi politici e chi tentava di esperire nuove vie di presenza sociale, in attesa di tempi migliori per l’impegno dei cattolici in politica (Preparazione nell’astensione). L’avversione dei politici italiani ad ogni dialogo con la Chiesa era dovuta alla mentalità liberale del tempo, secondo cui la Chiesa non è un soggetto istituzionale dotato di una propria fisionomia storico-giuridica, con cui trattare, ma un elemento da relegare nel privato o da eliminare, come una qualsiasi conventicola religiosa.
Parecchi sacerdoti avevano così manifestato il loro pensiero sull’Unità d’Italia, ma una decina di anni prima il vescovo Verzeri, appena giunto in diocesi, aveva dato al seminario un indirizzo strettamente spirituale e formativo. Sacerdoti come don Luigi Bianchini († 1872), don Giovanni Battista Gei († 1875) e don Giovanni Maria Turla († 1892), diedero sicurezza di ortodossia all’insegnamento in seminario, dopo che nel 1848-1849 sacerdoti dello stesso seminario avevano parteggiato per i moti di indipendenza. Secondo questa linea sorsero, dalla metà del secolo XIX, pie associazioni tra il clero. Nel 1850 ebbe inizio, nel seminario Santangelo, la Pia Unione fra i chierici e sacerdoti bresciani del Sacro Cuore di Gesù, provvista di statuto dal Verzeri nel 1859. Tra il 1861 e il 1862, negli anni in cui il Piamarta era in seminario, il padre spirituale don Luigi Bianchini promosse una Pia Unione fra il clero, in ragione antipassagliana e antiliberale. Un altro direttore spirituale, don Giovanni Isonni, diede inizio ad una Pia Unione di apostolato, intitolata al Sacro Cuore di Gesù, nel 1866.
Nelle parrocchie bresciane l’attività pastorale si svolgeva nelle forme secolari di amministrazione dei sacramenti, devozioni, predicazione e associazioni. Quanto a queste ultime, c’era continuo movimento. Infatti, la soppressione della antiche confraternite, in epoca napoleonica (era rimasta solo quella del Santissimo Sacramento), mise in moto i fedeli a formare nuove aggregazioni. Queste sorsero specialmente nella seconda metà dell’Ottocento, perché il nuovo governo dell’Italia unita, se ignorava la Chiesa come istituzione, non ostacolava però le manifestazioni strettamente religiose, a differenza del precedente regime austriaco, che esercitava un rigido controllo su ogni tipo di organizzazione, anche solo di devozione. Inoltre, vari documenti del magistero davano impulso a devozioni, che si trasformavano poi in associazioni: la devozione a Maria Immacolata (proclamazione del dogma dell’Immacolata, 8 dicembre 1854, da Pio IX), a San Giuseppe (proclamato da Pio IX patrono della Chiesa universale, 8 dicembre 1870; lettera apostolica sul santo Inclytum patriarcham, 7 luglio 1871; enciclica Quamquam pluries, di Leone XIII, 15 agosto 1889), alla Sacra Famiglia (breve Neminem fugit di Leone XIII, 14 giugno 1892, per l’istituzione dell’Associazione della Sacra Famiglia), al Sacro Cuore (estensione della festa a tutta la Chiesa, decretata da Pio IX, 23 agosto 1856; beatificazione di suor Margherita Maria Alacoque, promotrice del culto, 18 settembre 1864; proposta di Pio IX, 22 aprile 1875, alle diocesi, di effettuare la consacrazione al Cuore di Gesù; l’appello del papa fu accolto anche a Brescia dal vescovo Verzeri, il 23 maggio 1875). In seguito alla pubblicazione dei documenti del magistero, ebbero origine associazioni parrocchiali e famiglie religiose intitolate a queste devozioni, come figlie di Maria, confraternite di San Giuseppe e della Santa Famiglia, congregazioni religiose del Sacro Cuore e della Sacra Famiglia di Nazareth.
I sacerdoti rivolgevano la loro attenzione anche alla realtà sociale, con l’intento di far fronte ai problemi provocati dalla disordinata industrializzazione, denunciati anche dall’enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Molti sacerdoti entrarono come fondatori o come partecipanti nelle nuove aggregazioni che i cattolici andavano costituendo, tra Ottocento e Novecento, a favore dell’assistenza, della mutualità, della provvista di lavoro, dell’utilizzo del credito, che vanno sotto il nome di movimento cattolico. Basti citare alcuni esempi. Don Antonio Cosi (1841-1910), parroco di
Marmentino, fu consigliere della Banca cattolica triumplina San Filastrio, a Cimmo, e fondò una cooperativa di consumo a Marmentino. 
Don Pietro Gandini (1828-1911) di Quinzano, amico di Tito Speri, combattente sulle barricate a Brescia nel 1849 e assistente tra i feriti di San Martino e Solferino nel 1859, aprì una scuola di agricoltura a Quinzano e divenne collaboratore in opere sociali del parroco don Adamo Cappelletti (1846-1905), fondatore della Società operaia di mutuo soccorso e della Cassa rurale. Don Giulio Donati (1867-1947), giovanissimo parroco di Tavernole, dal 1893, fu promotore della Banca triumplina di San Filastrio (1896); andò poi parroco a Quinzano nel 1906, dove continuò le sue attività sociali a favore delle leghe bianche e dei contadini. Sant’Arcangelo Tadini (1846-1912), parroco di Botticino Sera, fondò una filanda, per dare alle operaie un luogo di lavoro più sicuro moralmente e economicamente. L’attenzione pastorale del clero si indirizzava anche all’educazione della gioventù, attraverso gli oratori, nei quali si faceva catechismo e si offrivano momenti di svago ai ragazzi. Alla fine dell’Ottocento, gli oratori esistevano in quasi tutte le parrocchie, e il vescovo Giacomo Maria Corna Pellegrini,in una lettera pastorale del 2 febbraio 1895, a ricordo del terzo centenario della morte di san Filippo Neri, così li raccomandava ai sacerdoti: «Noi ci teniamo sicuri che non lascierete cadere quest’anno senza averci dato il desiderato annuncio, che l’oratorio è già istituito anche in quelle poche parrocchie che ancora ne erano prive, e che gli oratorii già esistenti hanno ripreso vita più fiorente pel numero, per la disciplina, per la pietà, pel fervore dei cari giovinetti che li frequentano». Il Piamarta, con la sua opera, si inserisce in questo quadro storico del clero bresciano, dove all’interesse del culto, si accompagna una intelligente opera pastorale, che incontra i fedeli nei luoghi di vita e di lavoro. Considerarne i tratti di sacerdote significa evidenziare le linee che sono comuni con gli altri sacerdoti e sottolineare alcune specificità proprie della sua personalità e del suo carisma, che lo distinguono dai suoi colleghi.


Casa natale di San Giovanni Battista Piamarta in via San Faustino a Brescia

Amicizie sacerdotali

Sacerdoti si diventa e si esercita il ministero, non solo perché si studia da preti, ma anche perché se ne apprende l’arte vivendo insieme con altri sacerdoti, che favoriscono l’origine della vocazione, la sostengono nella crescita e la condividono nell’esercizio pastorale. In Piamarta sono importanti le figure di alcuni sacerdoti, che segnarono il suo cammino e le sue vicende. Nato il 26 novembre 1841 nella parrocchia dei Santi Faustino Giovita a Brescia, Giovanni Piamarta entrò in seminario nel 1862, divenne sacerdote nel 1865, fu curato a Carzago (1865-1868), a Bedizzole (1869- 1870), a Sant’Alessandro in città (1870-1883), parroco a Pavone Mella (1883-1886), fondatore e direttore degli Arigianelli (1886-1913). Il primo sacerdote che influì sul Piamarta è don Vincenzo Elena (1829- 1904), che dal 1855 fece rifiorire l’oratorio di San Filippo Neri nell’oratorio di San Tommaso, nella parrocchia dei Santi Faustino e Giovita, di cui era originario il Piamarta. Don Elena fu un sacerdote educatore, che si avvaleva sistematicamente delle attività associative e ludiche per intrattenere e educare i giovani, anche della musica, di cui era buon esecutore e maestro. 
Il Piamarta fu uno dei frequentanti dell’oratorio; alla scuola di don Elena fu un discreto cantore, e mise a frutto questa passione anche nel futuro istituto Artigianelli, formando una banda musicale di giovani. Il giovinetto Piamarta, spesso fuori casa, perché senza madre, morta quando era fanciullo e il papà era occupato nel mestiere di barbiere, si recava all’oratorio, nei momenti di libertà dall’apprendistato di materassaio presso il parente Zanolini, dove il padre lo aveva collocato. All’oratorio apprese le nozioni della fede e a correggere il proprio carattere vivace. Lo stesso Piamarta ricorderà più tardi quanto fu determinante per la sua formazione la frequenza all’oratorio: «Il mio diletto Oratorio di S. Tomaso che mi accolse a nove anni, orfano di madre, mortami in quell’età e col padre impedito affatto anche nei giorni di festa a curare la mia educazione! Chissà mai che cosa sarebbe stato di me, del mio avvenire col mio carattere impetuosamente vivace? Indubbiamente, che trovandomi affatto libero di me stesso, sarei riuscito  rompicollo di primo ordine». 
Il Piamarta fu sempre legato al suo oratorio e quando ritornò a Brescia nel 1872-73 accettò l’intestazione legale dei legati della chiesa dell’oratorio. Un altro sacerdote ebbe un ruolo decisivo per la vocazione del Piamarta, don Pancrazio Pezzana (1819-1890). Diventato sacerdote nel 1843, nel 1849-1853 fu insegnante in seminario, poi parroco a Vallio. Il Piamarta si incontrò con lui quando si recò a Vallio nel 1854-1855, mandato dal signor Zanolini, per un periodo di vacanza. Il Pezzana conobbe il giovane e ne rimase ben impressionato; esperto com’era di seminaristi, avendo insegnato loro, vide nel Piamarta le doti indispensabili per diventare sacerdote: lo preparò, quindi, lo istruì e poi lo inviò in seminario, nel 1860, a circa vent’anni. Il Pezzana si tenne caro il suo allievo e, quando questi divenne sacerdote nel 1865, lo ebbe nella parrocchia di Carzago, vicina a Bedizzole, dove il Pezzana era stato trasferito dopo Vallio. Anzi, il Pezzana chiese il Piamarta proprio a Bedizzole come curato coadiutore, dal 1869. Quando, l’anno successivo, don Pezzana fu trasferito a Sant’Alessandro, richiese anche in questa parrocchia il Piamarta. Influirono sulla formazione del Piamarta i sacerdoti del seminario. Negli elenchi del seminario, egli compare nel 1860-1861, ammesso al II corso di filosofia. Nel 1862-1863 frequenta il primo corso di teologia. I superiori del chierico Piamarta furono figure benemerite nel clero bresciano, che seppero tenere la direzione con fermezza inmomenti di turbolenza nel clero, negli anni dell’Unità d’Italia. 
Nell’ultimo anno di teologia troviamo don Pietro Bertazzoli, rettore, poi canonico, esaminatore prosinodale; don Pietro Vivenzi, direttore spirituale; don Giovanni Maria Turla, professore in teologia morale e pastorale, poi canonico e apprezzato confessore; Geremia Bonomelli, per l’insegnamento di dogmatica, poi vescovo di Cremona; don Egidio Cattaneo, per sacra scrittura e lingua ebraica, fondatore di una scuola cattolica a Carpenedolo, dove studiò il giovane Giorgio Montini, poi papà di Paolo VI; Artemio Gorgonio, per storia ecclesiastica; don Cesare Giupponi, per diritto canonico. Il Piamarta ricevette gli ordini alle seguenti date: ostiariato e lettorato, 27 dicembre 1862; esorcistato e accolitato, 27 dicembre 1863; sottodiaconato, 17 ottobre 1864; diaconato, 10 giugno 1865; presbiterato, 23 dicembre 1865. Nonostante non avesse completato gli studi, i superiori lo ammisero ugualmente al sacerdozio, in considerazione della sua pietà e maturità; celebrò la prima messa nel giorno di Natale 1865 nella chiesa parrocchiale di Bedizzole, ospitato da don Pezzana. Nella sua vita ha un posto di rilievo un altro sacerdote, don Pietro Capretti (1842-1890), che fu una figura distinta nel clero bresciano per intelligenza e zelo, proponendo forme di presenza cattolica nella società rispondenti alle esigenze dei tempi, anche se regnava un clima di anticlericalismo. Nel 1867 don Capretti iniziò il seminario dei chierici poveri, che nel 1870 troverà dimora definitiva nel monastero soppresso di San Cristo, diventando, fino a metà del Novecento, seminario minore; nel 1878 entrò nella fondazione del giornale Il Cittadino di Brescia e ne sostenne la linea favorevole alla partecipazione dei cattolici alla vita sociale e culturale dell’epoca. Il Capretti ebbe il merito di introdurre il Piamarta nell’impresa degli Artigianelli, che questi condusse poi con carisma, opera e sostanze propri. Un altro sacerdote entra nell’opera del Piamarta, don Giovanni Bonsignori (1846-1914). Prima curato a Borgo Trento, in Brescia, poi parroco a Goglione Sopra e a Pompiano, scoprì a poco a poco la sua vocazione di agronomo e vi si dedicò con passione, studio e competenza. Il Piamarta lo associò al proprio istituto nella formazione dei giovani alla coltivazione dei campi, con la fondazione della Colonia Agricola di Remedello (1895). 
La storia del Piamarta è segnata da amicizie sacerdotali intense, di cui quelle ricordate sono particolarmente importanti, perché entrano in alcune articolazioni essenziali della sua personalità e opera: don Elena, per la formazione giovanile; i superiori del seminario, per la preparazione al sacerdozio; don Pezzana, per il ministero sacerdotale parrocchiale; don Capretti, per l’introduzione agli Artigianelli; don Bonsignori, per la collaborazione nella scuola dei giovani.


La basilica di San Faustino, a Brescia,
con accanto l'oratorio San Tommaso (oggi sala Piamarta)
frequentato dal piccolo Giovanni, in una fotografia dei primi del Novecento.


Il Piamarta in parrocchia  

Appena ordinato sacerdote, Piamarta diventò coadiutore nella parrocchia di Carzago Riviera, dove rimase per tre anni e quattro mesi (1865-1869) e dove era parroco don Luigi Presti. Egli entrò nella pastorale consueta di ogni parrocchia: il culto, i sacramenti, l’incontro con le anime, la catechesi, l’assistenza agli ammalati. Fu sempre presente ad animare la dottrina cristiana e ne organizzò la congregazione in classi, secondo le norme di San Carlo, con le cariche del priore, sottopriore, maestri, silenzieri, infermieri. Alla dottrina partecipavano fino a 450 persone, su 600 abitanti. Il vicino parroco di Bedizzole, don Pezzana, appena fu possibile, richiese don Piamarta, da Carzago nella propria parrocchia. Don Giovanni entrò in aprile del 1869, come coadiutore, prendendo il posto di don Faustino Confortola. Bedizzole era una parrocchia composta da molte frazioni e il nuovo curato portò la dottrina cristiana per i ragazzi anche nelle numerose chiesette di contrada. Ma il servizio in questa parrocchia fu breve. Infatti, quando don Pezzana si trasferì parroco a Sant’Alessandro, volle con sé il curato Piamarta. I due entrarono in parrocchia nel dicembre 1870. Quella che fino ad ora era stata una collaborazione appena abbozzata tra i due sacerdoti, nella nuova parrocchia divenne cooperazione quotidiana; il curato godeva della stima del parroco, il quale, poiché era sacerdote ascoltato e apprezzato presso il clero, così da subentrare, in Sant’Alessandro, al parroco don Corna Pellegrini, che divenne poi ausiliare e vescovo di Brescia9, accreditò nell’ambiente cittadino le capacità del suo curato. L’idea positiva che il Pezzana si era fatta del giovinetto Piamarta a Vallio, fu confermata dalla prova dei fatti a Sant’Alessandro. Il curato Piamarta qui ebbe a cuore la liturgia e procurò l’ornamento della chiesa, fornendo a proprie spese paramenti e suppellettili sacre. Era assiduo al confessionale, che trasformava in luogo di direzione spirituale; nella predicazione era ascoltato volentieri. Si dedicava con costanza all’assistenza dei poveri e degli infermi, andando in cerca di quelli che erano lontani dalla fede. Attrasse il Piamarta soprattutto l’educazione dei giovani, per i quali iniziò l’oratorio, per intrattenimento e catechismo, insieme con il parroco don Pezzana. Dopo 13 anni a Sant’Alessando, fu trasferito a Pavone Mella, nonostante le rimostranze dei parrocchiani espresse al vescovo contro tale decisione. Entrato a Pavone nel febbraio 1884, il nuovo parroco trovò una parrocchia impoverita nelle strutture e nella pastorale: egli si curò della chiesa, provvedendola di finestroni e di paramenti sacri. La testimonianza di una figlia spirituale del Piamarta, Maria Teresa Udeschini di Pavone, ricorda alcune sue opere per i giovani e per le donne: «Incapace sono di parlare di lui e delle grandi ispirazioni divine che trasmetteva alla gioventù per incamminarla sulla via che il Signore additava. Fondò nel paese l’Oratorio e l’Associazione Madri Cattoliche. Fino allora, i giovani si ingolfavano, tutti i giorni di domenica, nel ballo; e le madri non avevano dove raccogliersi per avere una istruzione, una parola buona... Il suo intento era di fare delle giovani serie e oneste, altrettante madri, per avere così famiglie sane». Era notata dai fedeli la sua pietà nella celebrazione dellamessa. Il suo confessionale era molto frequentato,ma egli invitava spesso confessori straordinari per dare alla gente la possibilità di scegliere il sacerdote più adatto. Assisteva a lungo gli ammalati. Era un buon predicatore, anche se non di grido, sia nella messa che nella dottrina; la sua parola era semplice e chiara, e venivano ad ascoltarlo anche fedeli dai paesi vicini. Raccontava i fatti della storia sacra, che attraevano la curiosità degli ascoltatori. Diede risalto al mese di maggio, che si teneva a novembre, quando non c’erano i lavori dei campi, con una celebrazione serale che riempiva la chiesa. Istituì la processione solenne della Madonna, celebrata alla quarta domenica di ottobre. I fedeli lo ammiravano anche per la modestia della sua persona, la semplicità dell’abito e della casa; nel suo studio c’erano solo libri, un crocefisso, un teschio, una sedia.


La facciata e il sagrato della chiesa Sant'Alessandro

L’oratorio di Sant’Alessandro

Nell’attività di sacerdote di parrocchia del Piamarta è fondamentale l’opera dell’oratorio e dell’educazione della gioventù. Il Piamarta aveva sperimentato che nella sua crescita era stato determinante l’influsso dell’oratorio di San Tommaso, che lo aveva protetto da deviazioni morali, ed era stato il luogo in cui si era delineato l’ideale sacerdotale, perciò volle dedicare a questo ambiente formativo tutto il suo apostolato. Egli afferma, nel 1912, guardando alla sua vita ormai trascorsa: dipendendo dall’oratorio «la mia educazione cristiana, ma eziandio l’inizio fondamentale della mia carriera sacerdotale alla quale feci del mio meglio per corrispondervi il meno male che mi fu possibile, sentii imperiosamente il dovere di corrispondere a sì segnalata grazia col dedicarvi tutte le poche miserabilissime mie forze alla educazione cristiana della gioventù: a Sant’Alessandro coll’Oratorio per 13 anni, e dopo la sosta di soli 3 anni come parroco a Pavone Mella, coll’Istituto in cui spero di morire». Il Piamarta, guardando a ritroso la sua vita, intende il suo ministero sacerdotale principalmente come apostolato tra i ragazzi. Nella parrocchia di Sant’Alessandro specialmente, egli si dedicò in modo sistematico all’oratorio, dandovi un’impronta propria spirituale. L’opera degli oratori aveva una tradizione cospicua, in Brescia, per iniziativa di sacerdoti che vi avevano profuso tutte le loro doti e sostanze. All’inizio dell’Ottocento padre Pietro Antonio Guzzetti († 1818), della Pace, radunava alcuni ragazzi in locali presso la Pace. Nella stessa epoca si occupava della gioventù don Faustino Pinzoni (1779-1848), nel 1815 prevosto di Sant’Afra, poi in Cattedrale, nella cui parrocchia iniziò l’oratorio di San Zanino. Un altro oratorio sorse ad opera di don Ludovico Pavoni (1784-1849), che ebbe sede in vari luoghi, a Sant’Orsola, a San Giacomo nel 1813, accanto a San Faustino, a Santa Maria della Passione nel 1814, finché approdò a San Barnaba, dove il Pavoni iniziò il suo istituto per i piccoli artigiani, cui affiancò la congregazione dei Figli di Maria (1847). Un oratorio iniziò in San Tommaso, vicino a San Faustino, il canonico don Vincenzo Bonomi (1781-1836), quello appunto frequentato dal ragazzo Piamarta. I sacerdoti Giovanni Battista e Massimo Averoldi (1794-1847), diedero origine all’oratorio a San Nazaro, verso il 1817. Don Luigi Apollonio (1823-1882) nel 1853, curato di San Faustino, alla domenica pomeriggio cominciò a raccogliere i ragazzi nella chiesa di Santo Spirito e nel 1855 iniziò l’istituto Derelitti. I ragazzi di don Apollonio, chiamati «birichini», furono affidati dal vescovo Verzeri, nel 1867, a don Lorenzo Pintozzi (1820-1894), che li raccoglieva in varie chiese, prima in Sant’Alessandro, poi a Santa Maria della Pace, a San Zanino e a San Benedetto. Gli oratori erano raduni festivi di ragazzi, presso chiese, o case di sacerdoti, per momenti di ricreazione e di catechismo.  
Nel 1876 il parroco di Sant’Alessandro don Pezzana e don Piamarta iniziarono l’attività oratoriana. Attorno al Piamarta si erano raccolti dei giovinetti, attratti dalla sua simpatia, che egli istruiva nella sagrestia della chiesa. Sorse l’idea di avere un oratorio regolare per loro: il Piamarta aprì, quindi, ai giovani la sua casa, in corso Magenta 28, in cui abitava anche il parroco al piano superiore, dove riceveva i giovani, mettendo a disposizione per la lettura opere illustrate e di carattere ascetico, giornali e riviste cattoliche. Nella chiesa di Sant’Alessandro si tenevano le funzioni religiose, i catechismi e le feste. La sagrestia era utilizzata come luogo di adunanza per gruppi e nel vicino cortiletto c’era movimento di ragazzi. Il Piamarta conduceva i gruppi in passeggiate al vicino ronco del Castello, in primavera e in autunno; in estate ci si serviva del seminario di San Cristo, poiché non c’erano i seminaristi; talvolta si andava a giocare alla fossa del castello o agli spalti San Marco. 
Il Piamarta stesso andava in cerca dei ragazzi, radunandoli, specie la domenica, per non lasciarli soli. Sulle attività dell’oratorio e sullo spirito con cui venivano svolte, è preziosa la testimonianza del cugino del Piamarta, Giovanni Tebaldini: «Più nelle passegiate e nelle modeste ricreazioni che egli – mancando a Sant’Alessandro una ampia palestra – in alcune domeniche primaverili od autunnali faceva intraprendere sino al Ronco delle signoreMinelli, sua costante preoccupazione era quella di ispirare co’ suoi discorsi e mantenere ne’ suoi giovani alunni l’idea fissa delle finalità della vita terrena: cioè la dedizione assoluta alla santa causa ed alla volontà del Signore. E per raggiungere questo intento, con costante ardore, organizzava egli feste religiose, tridui, novene, celebrazioni esaltanti questo o quel Santo che intendeva onorare e da essi prendere lumi... Ai suoi giovani due figure eccelse additava egli costantemente: san Luigi Gonzaga e san Filippo Neri. Nel primo esaltava lo specchio di purità, l’esempio preclaro della castigatezza morale, e l’esercizio di ogni più alta virtù: nel secondo la paterna sollecitudine al bene comune. Con questo miraggio di fede il venerato Padre avanzò arditamente sulla via maestra accompagnandosi tante anime forse anche incerte o traviate». L’oratorio di Sant’Alessandro era senza strutture e mezzi; vi avevano importanza invece le idee e i rapporti tra le persone. Il Piamarta avviò delle associazioni. Nel 1879 esistevano la Propagazione della fede, con a capo il giovane Luigi Pavoni e la Santa Infanzia, guidata da Battista Colosio, dei quali il Piamarta diceva: «e vedesi con quale ardore e con quale splendido successo le dirigono». Ancora nel 1879 si costituì il comitato parrocchiale di Sant’Alessandro, il primo fondato in Brescia. Il Piamarta aveva di mira la formazione e la crescita spirituale dei giovani, non solo il loro intrattenimento, o l’insegnamento didattico. È interessante in proposito una lettera in risposta ad una missiva di Giuseppe Montini, fratello di Giorgio, papà di Paolo VI (23 marzo 1878): «Benedetto sia il Signore che nella sua bontà continua a mantenere, anzi ad accrescere, nel cuore del mio Giuseppe quei sentimenti così squisiti di fede e di amor di Dio che io ho veduto svolgersi in te e pei quali sentiva di doverti amare con parzialità di affetto! Tu dunque vuoi proprio farti santo! Me lo dice chiaro la soluzione che hai presa di aggregarti fra i Figli di Maria. Dunque tu adesso concepirai sempre aborrimento maggiore al peccato, studiando di evitare anche i piccoli difetti avvertiti onde vieppiù piacere agli occhi purissimi dMaria Santissima. Sei figlio diMaria! Dunque io vivo sicuro che assumerai un contegno che sarà di edificazione e di esempio ai tuoi fratelli e a quanti ti avvicineranno [...]. Sta allegro... Ma sii di Gesù: io ti pregherò da Lui nella S. Messa la grazia ogni giorno che ti stabilisca sempre lei coi santi propositi». In un’altra lettera, al giovane Arcangeli, il Piamarta scriveva (5 novembre 1878): «In generale non siamo mal contenti, gli adulti si sono più disciplinati - Capilupi - Mainetti Dominatore - Bonetti Achille - Pavoni Arnaldo Luigi: sono giovani modello e cominciano ad ormeggiare i martiri. Circola nel loro sangue zelo ardente per la gloria di Dio». Era preoccupazione del Piamarta inserire i suoi giovani nel progetto di redenzione della società prospettato dal nuovo papa Leone XIII. In una lettera notava: «I miei giovani, dei quali desidererei farne quegli strumenti atti a compiere come che sia nella piccola loro sfera, quel vasto e grandissimo disegno ideato da quell’Uomo provvidenziale dei giorni nostri Leone XIII». I giovani erano grati al loro curato per questa attenzione spirituale. Uno di loro, Luigi Pavoni, entrato nella Compagnia di Gesù, scriveva al Piamarta, il 5 ottobre 1884, da Mantova, esprimendo tutta la sua riconoscenza per il bene ricevuto: «Mai sarà ch’io dimentichi il tanto beneficarmi che ha fatto, come direttamente e nell’anima e nel corpo, così indirettamente a bene di mia famiglia; bene che come a me stesso tengo per fatto, e che mai cesserò, come posso, dal pregare per lei, al che sono davvero obbligato. E come no, mentre se pur non vado errando vagabondo e miserabile e presso che perduto come tanti infelici in questo mare del mondo dietro alla vanità e al peccato, questo a Lei lo debbo dopo Dio. Questo farà in me incancellabile la sua memoria, come impossibile è il dimenticarmi d’essere entrato nella Compagnia e di voler sempre far guerra al mondo». Un altro giovane Giulio Trabucchi, dopo che il Piamarta si era allontanato da Sant’Alessandro per diventare parroco di Pavone Mella, scriveva il 19 marzo 1884: «Lei è sempre presente al mio spirito perché sento assai la sua mancanza. Portandoci in un campo men nobile, la sua mancanza mi fa quella impressione che fa il trovarsi senza orologio, o in nave senza bussola. Io ben mi avveggo che senza l’appoggio dei suoi consigli, e senza la sua guida, nella mia piccola cerchia d’azione, anziché edificare distuggo». L’oratorio di Sant’Alessandro non aveva ambienti propri, ma nel 1883 poté usufruire della chiesa della Pace, in via Tosio, annessa all’antico monastero della Pace, che era stato incamerato e ridotto ad abitazioni. 
La chiesa era diventata un magazzino, che il vescovo aveva acquistato per collocare l’oratorio di don Bortolo Gussago e, in seguito, i ragazzi di don Lorenzo Pintozzi; nel 1883 giunse appunto l’oratorio di Sant’Alessandro, ma il Piamarta, in quell’anno, andava a Pavone. Piamarta si interessò anche della gioventù femminile. A Sant’Alessandro egli aveva radunato un numero di giovani zelatrici del Sacro Cuore, alle quali teneva adunanze mensili. Nella contigua parrocchia di Sant’Afra, nel 1882, la maestra Giuseppina Bosio, con il parroco don Domenico Baldini, iniziò una scuola festiva per le ragazze lavoratrici a Brescia. Nel 1885 fondò nella stessa parrocchia una Pia Unione delle Figlie del Sacro Cuore. Il parroco incaricò il curato di seguire il gruppo. Per qualche mese, ogni primo venerdì del mese, il curato indirizzava alle giovani una buona parola, ma non parlava mai del Sacro Cuore. 
La maestra Bosio, che conosceva il Piamarta e sapendo che da Pavone, dove era parroco, doveva tornare a Brescia, lo pregò di assumersi l’opera, al suo arrivo. Giunto a Brescia, il Piamarta, il 1° giugno 1887, tenne la prima congregazione con sette giovani, nella scuola della Bosio, che fu l’inizio di un’associazione, che doveva contare poi più di 500 iscritte. Portò quindi le giovani nella cappelletta della Casa Moro, presso le suore di San Vincenzo de’ Paoli, per la benedizione eucaristica e l’8 dicembre dello stesso anno impose la medaglia del Sacro Cuore alle sette giovinette. Altre fanciulle si iscrissero, cosicché il parroco di Sant’Afra le volle in parrocchia e il 29 giugno del 1888, dopo un’alternata predicazione del parroco e del direttore don Piamarta, la Pia Unione celebrò in parrocchia la festa del Sacro Cuore, in cui fu imposta la medaglia di Figlie del Sacro Cuore alle primitive sette ancelle, attorniate da un nutrito numero di aspiranti. Il Piamarta continuò a dirigere il gruppo, tenendo le adunanze nella chiesa dei Santi Martiri, fino al 1893, quando lo assunse direttamente il parroco di Sant’Afra.
 
Brescia, chiesa di San Gottardo sui Ronchi del monte Maddalena
all'inizio del Novecento 


Oltre l’oratorio

L’esperienza di Sant’Alessandro fu determinante per gli sviluppi sucessivi dell’attività sacerdotale del Piamarta a favore della gioventù. Egli ravvisò alcuni elementi essenziali per un oratorio adeguato alle necessità educative di maturazione umana e spirituale, come emergono dalle lettere ai giovani sopra riportate. Per un oratorio adatto a questo fine occorreva un sacerdote apposito, con piena disponibilità di tempo. In una lettera al vescovo Corna, del 27 settembre 1903, il Piamarta esprime le sue convinzioni in merito. Egli chiedeva al vescovo di dare il suo consenso alla domanda di un chierico, Tonoli, ad entrare nella congregazione della Sacra Famiglia, il quale si sarebbe occupato dell’oratorio di Salò, subito dopo l’ordinazione, di cui aveva carico per testamento la stessa congregazione: «L’acquisto di un tale soggetto bravo e ottimamente penetrato di sodo spirito ecclesiastico, ci riesce preziosissimo non solo per dare l’indispensabile incremento alla nostra nascente congregazione, ma anche per infondere vita al languente oratorio dei giovani di Salò, di cui abbiamo noi dovuto assumere per testamento col carico tutta la responsabilità. La missione dell’oratorio è oggi più che mai di grandissima importanza specialmente nella popolare parrocchia di Salò per la gioventù [...], ed è follia presumere di poterla redimere con un oratorio abbracciato e condotto soltanto in via di ripiego, come di necessità si è dovuto fare fin qui. 
Oggi, l’opera, perché sia degnamente proseguita e possa corrispondere pienamente all’intelligente bisogno della parrocchia e dia i consolanti risultati spirituali di cui è feconda, richiede un sacerdote santo, che libero affatto di ogni altro parrocchiale impegno v’intenda con tutto quell’ardente zelo e spirito di sacrificio di cui è capace, e ciò non solamente nei giorni festivi, ma in tutti i giorni feriali». Il Piamarta confidava nell’assenso del vescovo basandosi sull’attenzione che il presule aveva per gli oratori: «Ben sapendo come a Vostra Eccellenza l’opera degli oratori ben fatti, stia sommamente a cuore sopra ogni altra del ministero sacerdotale». Il Piamarta pensava, quindi, all’oratorio non come ad una qualsiasi attività parrocchiale, ma come opera specifica, che occupava un sacerdote, con qualità personali di santità, a tempo pieno. 
L’oratorio, secondo il Piamarta, inoltre, non era solo festivo, come avveniva allora in tutte le parrocchie, ma quotidiano, in modo che esso divenisse un punto di riferimento continuo per la gioventù. Si imponeva, quindi, anche una seconda riflessione sull’adeguatezza dell’oratorio. Se l’oratorio era quotidiano, non era più possibile pensarlo senza strutture proprie. Gli oratori dell’Ottocento, come raduno di ragazzi per catechismo e ricreazione, erano accolti in chiesette sussidiarie, o di confraternite soppresse, in spazi delle chiese parrocchiali, in sagrestia, dietro l’altar maggiore, in locali originariamente destinati ad altri usi, non ad ospitare la gioventù; la ricreazione si svolgeva attorno alle stesse chiese o portando i ragazzi in luoghi aperti di campagna. Strutture apposite per gli oratori cominceranno a sorgere sistematicamente in tutte le parrocchie bresciane, solo dopo i congressi degli oratori del 1910 e catechistico del 1912 organizzati da Lorenzo Pavanelli (1876-1945)26, uno dei successori del Piamarta, curato all’oratorio di Sant’Alessandro: questo oratorio cittadino fu il laboratorio di pastorale giovanile per questi due grandi apostoli bresciani della gioventù. Ma il Piamarta pensava a qualche cosa di più. Egli voleva ambienti specifici di formazione permanente per i giovani, tanto che ebbe l’idea di acquistare dei locali in via Bredazzola per adattarli a questo scopo. 
L’intenzione riguardava la creazione di una struttura per ospitare i giovinetti, che venivano a studiare in città. Il tentativo non riuscì, ma esso è rivelatore dell’idea del Piamarta: ai giovani occorreva un’assistenza continuata, oltre l’oratorio, che un’istituzione apposita avrebbe potuto garantire; i giovani avevano bisogno non solo di un ambiente protettivo per i loro svaghi e per la formazione spirituale, morale e catechistica, come era l’oratorio tradizionale, ma di un ambiente promozionale delle loro capacità di studio e di lavoro per prepararsi ad un futuro di uomini maturi. Egli, insomma, pensava non solo all’oratorio come attività parrocchiale, che si risolveva nell’assistenza alla gioventù in momenti delimitati, ma ad un’istituzione più ampia, interessata ai giovani, considerati nella loro completa personalità, con la totalità e specificità dei loro bisogni di intelligenza, spirito, attività, professionalità, progettualità. Dallo sviluppo dei fatti successivi si deve pensare che il Piamarta non abbia tenuto per sé le sue riflessioni, ma le abbia condivise con altri, e precisamente con don Pietro Capretti, superiore del seminario San Cristo. I due si conoscevano perché erano della parrocchia di San Faustino e il Piamarta saliva spesso al seminario per incontrare l’amico. 
Quanto il Piamarta fosse in amicizia col Capretti, anche se gli dava del «Lei» per deferenza, lo dimostra una lettera del 29 giugno 1883 in cui gli rivolgeva gli auguri di buon onomastico, insieme con i giovani dell’oratorio di Sant’Alessandro: «Sa il Signore quel che desidererei in tale occasione offrirLe, onde tutta attestare la venerazione, l’affetto e la gratitudine, che per tanti titoli Le debbo. Quod autem habeo tibi do, ed è la disposizione dell’animo mio sincerissimo di voler essere, totis medullis cordis, sempre a Lei figlio ossequientissimo e pienissimamente sommesso». Fino qui, l’interesse del Piamarta per l’educazione della gioventù lo aveva riguardato come curato e parroco, senza un ufficio specifico. Ma ormai le cose stavano maturando in modo che il Piamarta si occupasse dei giovani a tempo pieno. È la seconda fase del suo sacerdozio. 


Gli alunni degli Artigianelli in uscita dall'Istituto per la chiusura
dell' Anno Santo (8 aprile 1951), e sullo sfondo, la scalinata
della chiesa di San Cristo con il seminario per i chierici
poveri voluto da mons. Pietro Capretti.




Dalla parrocchia agli Artigianelli

Il Capretti conosceva l’attenzione del Piamarta verso i giovani e nutriva la speranza di associarlo come collaboratore ad un progetto che gli stava a cuore, per il quale riteneva il Piamarta il sacerdote più adatto. Lo dimostrano l’insistenza con cui il Capretti sollecitò il Piamarta a quest’opera e la risolutezza con cui intervenne presso il vescovo Corna Pellegrini, per convincere il collega. L’idea era la ricostituzione dell’istituto di Ludovico Pavoni per la formazione di giovani apprendisti. Il Capretti, nel suo seminario di San Cristo, aveva ospitato alcuni padri dei Figli di Maria del Pavoni, soppressi nel 1866 e poi disciolti nel 1874. Il Capretti, su suggerimento di costoro, si era convinto a ricostituire l’istituto del Pavoni. Capretti parlò al vescovo Corna del progetto e chiamò in causa il Piamarta, affinché lo aiutasse, non preoccupato del fatto che questi aveva appena iniziato un nuovo incarico, quello di parroco a Pavone Mella. Quali discorsi siano intercorsi tra il Piamarta e il Capretti non è possibile sapere; sicuramente ci furono colloqui e scambi epistolari, fino a che il Piamarta si convinse a fare un primo passo. Il 3 dicembre 1886, infatti, troviamo il Piamarta che celebra la messa, nella cappella del Sacro Cuore del seminario di San Cristo, con la partecipazione dei primi quattro Artigianelli. Il Piamarta, con questo gesto, si mostrava disposto, in linea di massima, ad assumersi l’impegno nel nuovo istituto, pur rimanendo a Pavone. 

Una lettera del Capretti al Piamarta, del dicembre 1886, non si sa se scritta prima o dopo il 3 dicembre, mostra che questi aveva parecchi dubbi sul nuovo impiego. Il Capretti era ormai deciso all’opera, ma il Piamarta voleva nuove rassicurazioni sia sul progetto in sé, sia sul proprio ruolo. Le idee del Capretti in questa lettera sono le seguenti: lo scopo fondamentale dell’opera è di ripristinare l’istituto del Pavoni; occorre preparare, perciò, allievi e officine, da una parte, e direzione e superiori, dall’altra; al momento ci sono una dozzina di allievi e tre o quattro arti; ora si conta sulla collaborazione del chierico don Emilio Bongiorni e del giovane Dominatore Mainetti, dell’oratorio di Sant’Alessandro; non si sa quanti allievi si potranno avere in futuro, e se altre persone aiuteranno il Piamarta; al desiderio del Piamarta, che l’istituto gli lasci il tempo per impiegarsi anche in un’altra opera (probabilmente la vagheggiata casa per studenti in città), il Capretti risponde che ciò è possibile, se tutto però converge al bene dell’istituto («il quale – afferma – riposa essenzialmente sopra di te e di cui sei tu responsabile innanzi a Dio»). 
L’idea del Capretti sul coinvolgimento del Piamarta è perentoria: «Tu sei obbligato a dare un rigoroso e profondo indirizzo alla parte disciplinare e morale dell’Istituto con questi aiuti senza pretenderne altri.Ora forse io mi ingannerò, ma penso che questo indirizzo esiga almeno sui primordi da parte tua una assiduità, una vigilanza con concentramento dirò così, di tutte le tue forze intorno ai ragazzi, tale da lasciarti poco agio e tempo da attendere ad altre occupazioni. Bisogna che tu li abbia sott’occhio, son per dir sempre, tutti questi ragazzi, sacrificando per essi, almeno nei primordi, tutto ciò che da essi potrebbe allontanarti. Io te lo dico chiaro, così com’è andata finora, la cosa non va, assolutamente non va, e se questi ragazzi prendono un avviamento senza disciplina, noi ci prepariamo una difficoltà gravissima per l’avvenire. Ed io ho sempre pensato e penso tuttora che in sostanza dinanzi al vescovo ed a Dio debba essere tu il responsabile dell’andamento disciplinare e morale, tanto che se tu non te la sentissi di sobbarcarti a questo peso io non avrei mai sognato di mettermi in simile impresa». Le ultime righe della lettera rivelano che i due si erano parlati sul progetto e il Piamarta si era mostrato propenso ad accettare. Secondo il Capretti, al Piamarta spettava il compito di guida disciplinare mediante una presenza costante. 
In una missiva successiva, scritta in prossimità del Natale 1886, il Capretti ritorna sulle titubanze del Piamarta. Ora si era verificato un fatto nuovo: il chierico che si pensava potesse dare un aiuto, don Emilio Bongiorni, era stato chiamato ad insegnare filosofia in seminario. Occorreva perciò la continua presenza del Piamarta. Il Capretti sapeva che don Piamarta aveva in mente iniziative proprie e desiderava libertà d’azione ed egli non gliela negava, pur ritenendo di dover procedere di comune accordo, ma lo avvertiva, che i progetti di fabbriche, iniziative, presenza di alunni, richiedevano di essere finanziati: «Accetta ragazzi, ma impegnati a pagare il mantenimento, fabbrica e paga, impianta officine, ma pensa all’occorrente; fa spese straordinarie, ma trovane i mezzi». Secondo il Capretti, ora gli alunni erano saliti a una dozzina, ed erano «discretamente accomodati di casa, di cucina, di dormitorio, di assistenza, di servitù, di officina»; ora si stava tentando di impiantare anche l’officina di falegnameria, e si stava acquistando il ronco di Santa Giulia, appartenente alla Promotoria della curia. Il 4 gennaio 1887, il Capretti supplicava il Piamarta di venire a Brescia: «Vieni, fa a Dio il sacrificio che ti domanda; tutto mi fa credere che il Signore premierà per te e per l’Istituto questo atto di abnegazione». 
Il Capretti si mostrò deciso e insistente ad ottenere ciò che vedeva necessario per la realizzazione del suo progetto, sia verso il Piamarta, sia verso il vescovo, per cui questi si convinse a richiamare il Piamarta da Pavone e a farlo rientrare a Brescia. Il 1° febbraio 1887, su ingiunzione del vescovo, il Piamarta scrisse la lettera di rinuncia alla parrocchia, per dedicarsi al nascente istituto, spinto, più che dalla convenienza pastorale, di cui non aveva chiara cognizione, dal timore spirituale di non corrispondere ai disegni di Cristo, se non avesse accettato: «In conformità all’intelligenza con l’Eccellenza Vostra rassegno nelle venerabili sue mani la mia rinuncia a questa Parrocchia, per poter tutto dedicarmi alla santa opera della coltura morale dei poveri giovanetti nel nascente Istituto dei Figli di Maria. Invoco dalla paterna Sua bontà una specialissima benedizione onde i disegni pietosi di Gesù Cristo in questa santa impresa non restino per colpa mia traditi». Il Piamarta si stabilì a Brescia il 3 o 4 febbraio 1887. Gli eventi avevano preso uno sviluppo repentino, cosicché il Piamarta si era trovato coinvolto in una vicenda di cui non erano chiari specialmente gli aspetti finanziari. Egli racconterà più tardi: «Io venni per obbedienza chiamato a Brescia solamente ed unicamente per dirigere i giovani dell’Istituto, che stava per aprire Monsignor Capretti per proprio conto, istituzione convenuta con Sua Eccellenza il vescovo senza chemi fosse fatta parola di... dover assumermi alcun peso». 
Il Piamarta iniziava come direttore. Il suo obbligo era esclusivamente di prestarsi gratuitamente come rettore morale e disciplinare dei giovani, senza altri obblighi. Alla fabbrica, vitto, officine, assistenza, servitù doveva provvedere don Capretti, con l’assistenza morale e materiale del vescovo. In realtà, poi, il Piamarta dovette provvedere a molte cose mancanti. Capretti contribuì lire 1500 ogni anno per due anni, poi si ammalò. I ricoverati erano cresciuti a una ventina e il denaro era insufficiente al loro mantenimento. Il Piamarta si trovò solo e senza mezzi per impiantare nuovi laboratori. Capretti e il vescovo capirono che non si poteva continuare e che bisognava chiudere l’opera. Il vescovo parlò col Piamarta, che gli rispose: «No, Eccellenza, morirò qui con i miei giovinetti». Il vescovo acconsentì e lo congedò dicendogli: «Dio vi assista». E il Piamarta si assunse tutto il peso dell’istituto33. Si era nel 1889. 
Il 18 gennaio 1890 morì don Capretti, e con lui il suo tentativo di ripristinare l’istituto del Pavoni. Il Piamarta era stato coinvolto dal Capretti nella sua opera, tanto che, senza il suo assenso, quest’ultimo non l’avrebbe iniziata. Ma il Piamarta non aveva in animo di riprendere l’istituto del Pavoni, come voleva Capretti. In questo caso occorreva ristabilire i contatti con i religiosi del Pavoni, tuttora esistenti, e accordarsi con loro. Ciò lo poteva fare il Capretti, con il suo carisma di sacerdote di prestigio nel clero bresciano, ascoltato dal vescovo, che sapeva destreggiarsi nelle pieghe delle istituzioni ecclesiastiche. Il Piamarta era sacerdote di parrocchia; gli era più congeniale pensare ad un’opera propria, secondo la sua esperienza di oratorio, per offrire un asilo ai ragazzi che venivano a studiare in città, sia pure seguendo l’intento del Pavoni di avviare i giovani alla formazione professionale. 
Il Piamarta non aveva l’intenzione di ricostituire una congregazione precedente, ma non volle neppure cancellare i segni della iniziativa del Capretti, affermando ad ogni costo, per spirito di singolarità, la diversità delle proprie intenzioni. Infatti, esistente il Capretti, il Piamarta mantenne l’appellativo della congregazione dei Figli di Maria del Pavoni; poi lo mutò in quello di Istituto degli Artigianelli, nell’intestazione delle lettere. Inoltre, i ragazzi, fino al 1902 portarono sulla visiera della divisa la scritta «Figli diMaria». Al Piamarta non interessavano le etichette formali, ma la sostanza dell’opera per i ragazzi. Da qui in poi il Piamarta si trovò in una nuova fase della sua vita sacerdotale, in cui rimanevano le componenti fondamentali del ministero dei sacramenti, della parola e della carità, ma l’esplicazione pastorale assumeva forme nuove, al di là di quelle tradizionali parrocchiali. Il Piamarta doveva esercitare la sua inventiva e coraggio per farsi prete secondo le necessità della nuova opera. Per i giovani studenti operai occorrevano fabbricati adatti. Il Piamarta acquistò una casetta per formare l’ingresso dell’istituto. La sede era proprietà del vescovo (due case con il brolo, dietro il monastero di Santa Giulia): il Piamarta acquistò i fabbricati nel 1891, e comperò anche il fabbricato ad uso falegnameria che univa le due case, costruito dal Capretti con un debito di L. 34 mila verso la Promotoria, pagato dal Piamarta. In pochi anni questi dovette accollarsi il pagamento di L. 74 mila. Per soddisfare i debiti si servì di un legato del signor Lombardi di Salò, che aveva stabilito una rendita per l’accoglienza di ragazzi orfani di Salò36. Nei fabbricati occorrevano suppellettili e macchinari, adatti per il convitto, la scuola, le officine, la ricreazione. 
L’istituto era un perenne cantiere in cui erano necessarie sempre nuove risorse e nuovo personale. Il Piamarta dovette lavorare continuamente alla ricerca dei mezzi occorrenti. Il numero dei ragazzi era in continua crescita. Oltre i 4 alunni con cui si iniziò il 3 dicembre 1886, nel 1888 ne entrarono altri 12, ed altrettanti nel 1889; nel 1890, altri 20. Dal 1886 al 1913 il numero degli alunni raggiunse i 150 interni; vi erano poi gli esterni. Erano studenti, falegnami, fabbri ferrai, sarti, meccanici, legatori, tipografi, calzolai, pastai, intagliatori, verniciatori, pittori, tappezzieri, elettricisti, decoratori, muratori, ecc. Erano ragazzi in normali condizioni familiari, ma anche orfani, che avevano precedenza rispetto agli altri. Quelli che non avevano compiuto la scuola dell’obbligo, prima frequentavano questa, poi passavano all’officina. Tra alunni e personale di servizio erano mediamente presenti ogni giorno 230 persone. Dava visibilità all’istituto la tipografia Queriniana. Essa risultava dall’unione, realizzata da mons. Capretti, di due ditte: la tipografia dei Figli di Maria, sotto il titolo «Tipografia e libreria vescovile, Ditta Giovanni Bersi e C.», e la tipografia Queriniana fondata nel 1884 dal consiglio di amministrazione de «Il Cittadino di Brescia». Il trasporto dei macchinari avvenne nel 1885. La Queriniana era la tipografia, unica editrice cattolica di Brescia, dove si stampavano vari periodici, tra gli altri: «La Voce del popolo», «Il Frustino», «Scuola Italiana Moderna», «La Madre Cattolica», «Sorrisi e Vagiti» dell’istituto di Maria Bambina, «La Famiglia Agricola» della Colonia di Remedello. La tipografia pubblicò molti libri di spiritualità, di pietà, di catechismo, di narrativa, di vari autori apprezzati. 
Il Piamarta era attento ad ogni ambito di formazione professionale, che poteva essere utile ai suoi ragazzi. Così colse immediatamente la provvidenzialità di un’occasione che gli si presentò, di avviare una scuola di agricoltura, con l’opera di don Giovanni Bonsignori, allora parroco di Pompiano. Questi, nel 1895, aveva donato alcuni alveari agli Artigianelli, affinché tenessero le api vicino alla loro casa. Poi venne all’istituto per spiegare come curare gli insetti. Il Piamarta si entusiasmò di quanto gli raccontò il Bonsignori sulle coltivazioni egricole e vide la possibilità dell’impiego in campagna dei suoi Artigianelli. Comperò 144 ettari di terra e vi costruì una colonia agricola. La scuola iniziò il 25 maggio 1896 con cinque alunni, provenienti dall’istituto Artigianelli di Brescia. Il Bonsignori si interessava dell’insegnamento tecnico pratico, applicando le teorie del cavaliere Stanislao Solari. Il Piamarta seguì assiduamente anche quest’opera. Proprio durante una visita alla colonia, fu colpito dal malore, la notte tra il 7 e l’8 aprile 1913, che lo portò allamorte il 25 aprile. In quest’ultima visita egli incontrò gli alunni, alla sera del 7 aprile, e lasciò loro esortazioni come di testamento sull’amore alla virtù, l’orrore al vizio, la stima del sapere e l’entusiasmo del lavoro.

 
Foto ricordo del terzo convegno degli ex-alunni dell'Istituto Artigianelli (24 giugno 1928),
con i padri Pietro Galenti, Pietro Serioli e Giulio Spinoni.




L’educatore

L’istituto Artigtianelli divenne una scuola conosciuta e apprezzata. Lo scopo dell’istituto era così dichiarato: «la formazione di giovani operai cristiani». La scuola del giovane lavoratore era diretta a migliorare le capacità produttive, a promuovere una più viva coscienza del lavoro, ad animare i rapporti lavorativi con la fede in Dio e la vita morale, in modo da liberare la tecnica dalla sua forza meccanica, ponendola invece al servizio di un migliore stato umano del lavoratore. Al centro dell’economia stavano il lavoratore e il suo lavoro, non il prodotto, né il capitale; l’economia veniva considerata in funzione formativa dell’individuo lavoratore, nella sua personalità e socialità. 

Il Piamarta non aveva un sistema teorico-pedagogico, ma era un sacerdote educatore pratico, che guardava ai giovani del suo tempo, nelle situazioni di lavoro in cui si trovavano, con intenti pastorali, cioè allo scopo di formarli come uomini e cristiani. Egli «non era uno psicologo, ma la lunga consuetudine con l’animo giovanile, che fu un po’ l’humus di tutta la sua vita, l’aveva reso educatore, perché conosceva l’animo della sua gioventù: azione e reazione, accettazione e rifiuti, consuetudini e conformismi». Le sue intenzioni si deducono dalle sue attività, dagli appunti e testimonianze. Egli guarda allo stato di precarietà della gioventù, sia perché è in fase di passaggio verso l’età adulta, sia perché è facilmente permeabile agli influssi dell’ambiente, in cui regna l’anticlericalismo, nelle scuole, nei ricreatori laici, nelle camere del lavoro, nelle officine e afferma l’urgenza dell’educazione, non generica, ma adeguata ai tempi («Se si riformasse l’educazione si riformerebbe il mondo») e la necessità di una dedizione totale al compito educativo («Accogliere la gioventù, sorvegliarla, suggerirla, correggerla, seguirla, è un continuo esercizio di abnegazione, di estrema pazienza. Allora si vedranno i frutti copiosi, effetti della virtù impiegata nell’opera educativa»). 
Il Piamarta educatore operava secondo le convinzioni che aveva acquisito nella precedente esperienza di curato nell’oratorio di Sant’Alessandro. All’istituto Artigianelli poteva esperimentare la validità delle sue idee sulla necessità di operare per una educazione integrale del ragazzo, nella completezza del suo sviluppo evolutivo di bambino, adolescente e giovane, e nel far concorrere i vari ambienti, familiare, religioso, scolastico, lavorativo, ludico, alla crescita della sua persona. Inoltre si era convinto che l’educazione della gioventù non è un fatto scontato, che rientra nella normale dinamica di una società statica degli adulti, come era nel passato, ma è un’opera che richiede un’attenzione specifica, in una società in continuo cambiamento, in necessità di perenne aggiornamento educativo. L’istituto Artigianelli era una palestra per la verifica di queste riflessioni. 
In quest’opera don Piamarta metteva tutto il peso della sua personalità. Appariva come persona austera e energica, attiva e intraprendente, ma non assumeva comportamenti impositivi, bensì di persuasione, per spingere i ragazzi a impegni più generosi, come mostrano le sue lettere ai giovani di Sant’Alessandro sopra citate. La sua azione educativa era fatta di gesti concreti. Al mattino presto, prima che i ragazzi si levassero, passava per le camere; così anche alla sera. Entrava tutti i giorni nelle officine, raccomandando ai suoi sacerdoti e chierici di farvi visita spesso, specialmente nel pomeriggio, dividendo le ore, in modo che ad ogni ora passasse un padre o un chierico. Era sempre presente anche nella ricreazione. Con la continua presenza degli educatori tra gli alunni, si attuava il metodo preventivo. 
L’ambiente educativo degli Artigianelli era quello del collegio, non della famiglia, dove molto è lasciato alla spontaneità dei rapporti tra i membri; il collegio richiede, invece, disciplina e norme per la convivenza dei ragazzi: perciò l’istituto del Piamarta formava all’acquisizione di una socialità fatta di diritti, doveri e solidarietà per la vita comune, tuttavia in un contesto di rispetto dei giovani, della loro individualità e giusta libertà, che la continua presenza dialogante degli educatori garantiva. Quanto ai contenuti formativi si possono evidenziare alcuni aspetti. La carta educativa dell’istituto era Il Regolamento degli Artigianelli. Al primo posto si trova la formazione cristiana del giovane. Il regolamento afferma che ogni convittore deve ricordare che i suoi sforzi per il bene sono vani se non è in grazia di Dio; per questo egli partecipa alle pratiche di pietà e ai sacramenti. Le orazioni comuni si recitano devotamente; in chiesa si deve mantenere un contegno serio e devoto; tutti devono assistere alla scuola di religione. La messa è quotidiana e la giornata si conclude con le preghiere della sera. 
La preghiera è posta in relazione col lavoro. Il Piamarta scriveva: «Il lavoro del cristiano deve incominciare dalla invocazione di Dio. La preghiera è il suo sostegno e gli assicura la mercede del cielo... Gesù Cristo ci insegnò a levare gli occhi al cielo per rendere grazie a Dio. Da lui il sole, la pioggia, la fecondità del campo, da lui la salute... Gesù Cristo è il vero re delle nazioni, supremo monarca di tutti, non di un popolo determinato, ma dell’universo mondo; grande restauratore e ordinatore della società». Sulla necessità della formazione religiosa del giovane, nota ancora il Piamarta: «Se un giovane passa questa età nel timor di Dio, dico e protesto che ha in pugno il paradiso. Datemi un giovane che possa veramente dire: Se io passo in questa età pericolosa con piede fermo nella divina legge, quanto più facilmente passerò le susseguenti meno pericolose». Bisogna incominciare presto la formazione religiosa, perché «il giovinetto è come un vaso cavato di peso da una fornace. Prende subito quei vizi e quelle virtù che forma nei primi anni e li perpetua fino alla tomba». L’istituto riuniva in comunità unica di preghiera tutti gli alunni, fanciulli, adolescenti e giovani. La diversificazione della formazione cristiana secondo le età e i singoli allievi avveniva nella direzione spirituale e nella confessione, per le quali erano a disposizione il Piamarta e un confessore, ogni mattina. 
Il regolamento dell’istituto parla anche degli elementi della formazione culturale e professionale del giovane artigiano. Quanto al lavoro afferma che l’uomo è nato per lavorare e che chi non lavora commette ingiustizia. La frase, categorica, va intesa nel senso che il lavoro serve al proprio mantenimento e ad essere sufficienti a se stessi; perciò i ragazzi si dovranno dedicare al lavoro con la massima diligenza, sotto la direzione del maestro, nell’officina. Accanto al lavoro vi sono lo studio e la scuola; questa riceve concretezza dal lavoro, e a sua volta dà al lavoro dignità di cultura. Il lavoro e la scuola devono però lasciare spazio anche alla creatività del giovane, che si esprime nel gioco, nella musica e nella recitazione. Per questo il Piamarta, accanto ai locali della scuola e del lavoro, volle anche ambienti per il teatro e per la banda musicale. Era preoccupazione del Piamarta che l’educazione al lavoro avvenisse secondo le propensioni dei ragazzi. Per questo nell’istituto vi erano varie officine, che erano integrate con l’uscita degli alunni dall’istituto, quando mancavano dei maestri adatti. L’educazione professionale attuata nell’istituto era un segno anche per la società, perché contribuiva a far nascere l’interesse educativo sull’orientamento professionale dei ragazzi, secondo le loro attitudini, e secondo le esigenze del lavoro. L’idea era nuova per quei tempi, in cui i minori non avevano identità sociale e venivano intruppati nel mondo del lavoro, qualsiasi fosse. L’attenzione all’orientamento professionale del giovane indica il rispetto del Piamarta verso la dignità e la libertà di ogni singolo alunno, in modo che la sua identità personale non si perda nell’addestramento di massa. 
Per questo il Piamarta aveva parole di considerazione sulla elezione dello stato di vita del giovane. Egli scriveva: «È di grande rilievo questo affare, perché d’ordinario dipende da esso principalmente la propria felicità o infelicità temporale ed eterna. Iddio con vocazione generale chiama tutti i fedeli alla santità [...]. Con vocazione particolare chiama ciascuno a conseguirla in uno stato piuttosto che in un altro». Il risultato sociale di questo lavoro educativo degli Artigianelli fu di elevare la competenza professionale, la condizione economica dei lavoratori, ed anche di riconciliare il lavoratore con se stesso, togliendolo dall’abbruttimento interiore, che l’industrializzazione acelerata di quei tempi creava. Con tale formazione di ordine religioso, morale e professionale uscirono dall’istituto Artigianelli centinaia di giovani che contribuirono a formare le maestranze dell’industria bresciana. Gli alunni, dal 1886 al 1913, furono più di un migliaio. 



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