LA PRESENZA DELLA CONGREGAZIONE SACRA FAMIGLIA DI NAZARETH NEL MONDO

martedì 16 ottobre 2012

109 - “L’UMILE PIAMARTA”

E’ sorprendente constatare come i contemporanei, nel riferirsi a Padre Piamarta, usassero quasi immancabilmente l’espressione “l’umile prete bresciano”, capace di sorprenderli per le sue realizzazioni. L’espressione poteva alludere a molte cose, che andavano dalla sua povertà e semplicità al suo mettersi all’ultimo posto, fino alla sua capacità di comprensione e di servizio ai poveri e agli umili. Dalla testimonianze, si può dire che mentre la stampa dava un’accezione prevalentemente sociale alla sua umiltà (proveniva da un ambiente povero, ha operato tra i poveri), quelli che vivevano con lui ne accentuavano la dimensione ascetica (era un uomo umile di fronte a Dio e alle persone umane).

Ma certamente in tutti c’era un’allusione al paradosso della sua “piccolezza evangelica”, alla quale il Signore Gesù, lui stesso fattosi personalmente piccolo, aveva dato le sue preferenze: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”- (Mt 11,25)-

Le testimonianze sono dunque unanimi nel riconoscere la sua straordinaria umiltà. Ma in che cosa consisteva in realtà questa sua riconosciuta umiltà? Sarà bene evidenziare i fatti e gli atteggiamenti pratici ,più che le parole, sempre dubbie quando si tratta di questa materia delicata. Riflettiamo dunque su alcuni segni di una vera umiltà,chiaramente presenti in Padre Piamarta.

1. Saper ringraziare

L’umile è colui che riconosce il suo nulla, un nulla che ha ricevuto l’essere da Dio, assieme a tutti gli altri doni. L’umile è colui che riconosce la sua verità, cioè il suo essere dono e quindi sa di dover ringraziare. “Che cos’hai che non l’abbia ricevuto. E se l’hai ricevuto perché te ne vanti, come se non l’avessi ricevuto”? Il superbo non sa ringraziare, perché pensa che tutto gli sia dovuto. Si dice che Satana si sia ribellato a Dio per il peso insopportabile della gratitudine. Satana non ha accettato il posto di secondo che deve riconoscenza al Primo. Il superbo non accetta d’essere inferiore, neppure nel momento in cui riceve. Spesso siamo ingrati perché siamo superbi. In questo dimensione si può comprendere la profondità del detto di Padre Piamarta: “La gratitudine deve essere la prima virtù dell’Istituto”.

Il primo atteggiamento di fronte a Dio è quello di ringraziarlo per l’esistenza e tutti gli altri doni. La gratitudine innanzitutto è un gesto religioso, un riferimento “teologale”, nei confronti del Datore di ogni dono. Ma la gratitudine è anche riconoscimento di quanto dobbiamo agli altri. E Piamarta aveva avuto l’esperienza di una fanciullezza tribolata, attraversata senza naufragi per l’intervento di persone generose. E anche da questa sua esperienza ha imparato a ringraziare per i doni ricevuti. Piamarta ha lettere delicatissime di ringraziamento nei confronti dei benefattori, riconoscendo che il merito del bene fatto dall’Istituto era tutto merito loro. E le prime ad essere ricordate sono le persone umili, quelle che hanno servito in silenzio e con dedizione fin dagli inizi.

Soprattutto sapeva apprezzare l’apporto dei suoi collaboratori, sia interni che esterni, mettendo in risalto in pubblico e in privato il loro contributo, ritirandosi spesso tra le quinte, per lasciar emergere il loro apporto. Benché il peso economico della Colonia Agricola fosse tutto sulle sue spalle, lasciò tutti gli onori al Bonsignori, in forma esplicita riconoscendo che lui il Bonsignori era la mente e in forma implicita non apparendo mai a Remedello quando c’erano visite illustri o momenti celebrativi.

Piamarta sapeva apprezzare i “profeti in Patria”, le capacità deii suoi più stretti collaboratori, valorizzandoli al massimo, mettendo in luce i loro talenti, incoraggiandoli a metterli in luce, e lasciando loro spazio, dando loro fiducia, giungendo persino a tentare più di una volta, ma inutilmente, di dimettersi “per non essere d’inciampo” all’opera. Certamente è anche per questo che benefattori e collaboratori erano tanto attaccati alla sua persona, vedendo la sua totale dedizione all’opera, senza credersi indispensabile!

2. Il mistero dell’obbedienza
Chi è veramente umile sa che è Dio che conduce la storia e che il riconoscimento di questa realtà, passa attraverso l’accettazione dell’obbedienza. La quale diventa riconoscimento del protagonismo di Dio e accettazione evangelica dell’essere “servo e soltanto servo”. Piamarta è prontissimo all’obbedienza, anche in situazioni in cui obbedire significava un salto nel buio o l’abbandonare progetti per il bene, accarezzati da tempo. Umanamente era inspiegabile la sua nomina a parroco di Pavone Mella, dopo che sembrava imminente l’apertura dell’Istituto, da tempo sognato con Mons.Capretti. Ma accetta e si dedica alla sua parrocchia con impegno e senza obiezioni.

Più difficile ancora sarà la richiesta della rinuncia alla stessa parrocchia, in un momento in cui Piamarta non vedeva un futuro all’opera condotta con criteri da lui non condivisi. Rinunciare alla parrocchia significava mettersi in una situazione fallimentare e senza prospettive. Ma per un umile, l’obbedienza è un rinunciare alla debole luce dell’evidenza umana per lasciarsi illuminare a guidare dalla luce sicura della volontà di Dio. Significa rinunciare a percorrere i propri sentieri per immettersi sulle strade di Dio.

Per questo, quando il Vescovo glielo chiede, non tergiversa un secondo, scrivendo: “Rassegno nelle venerabili sue mani la rinuncia a questa Parrocchia per poter tutto dedicarmi alla santa opera della coltura morale dei poveri giovanetti nel nascente Istituto”.

Il gesto doveva aver suscitato sorpresa e ammirazione se è vero che molti anni dopo il Vescovo di Tortona ricordava ” l’impressione che faceva a noi giovani chierici quest’uomo che aveva rinunciato all’affetto e alle consolazioni della parrocchia di Pavone, che apriva con stupenda fecondità Istituti, Case di Suore, Colonie Agricole, che fondava con l’intuito dei santi una Congregazione” .

E anche quando ha manifestato al Vescovo il suo desiderio di restare tra i suoi ragazzi, la sua famosa “No Eccellenza, morirò qui con i miei giovani”, era subordinata alla volontà del Vescovo. E così, obbedendo ha trovato la strada che il Signore aveva preparata per lui e soprattutto per i suoi ragazzi.
C’è un altro momento delicato, in cui l’obbedienza significa fiducia nella Provvidenza e umile riverente accettazione del desiderio del Vescovo, anche se ciò comporta un danno per i suoi ragazzi. Forse vale la pena di fermarsi un poco su queste episodio.

Siamo nel 1912, ultimo anno di vita del Padre e si stavano concludendo le trattative per la divisione del legato di Mons Capretti tra il Seminario di Brescia e l’Istituto Artigianelli. Il Vescovo aveva avocato a sé la decisione.

Piamarta chiede con grande deferenza e umiltà più volte d’essere ascoltato dal Vescovo o almeno di “delegare a sentirmi S.E Gaggia, Mons. Marcoli e Mons. Bongiorni”. A questa udienza ci teneva molto fino a scrivere che sentendo vicina la morte. “benedirei di gran cuore Gesù Benedetto se la mia chiamata seguisse immediatamente dopo il colloquio con V.E.”.

Il Vescovo gli fa sapere che la questione è già chiusa e “non sia proprio il caso di tornarci sopra”. Pronta la risposta del Padre: “Non ho più nulla da aggiungere. Se ho tanto insistito, fu unicamente per il bene del povero Istituto. Ora mi recherei a coscienza ad insistere più oltre con S.Ecc. per l’alta Riverenza che gli devo e per uno specialissimo riguardo alla veneranda sua canizie. Faccia Sua Ecc. quel che giudicherà meglio innanzi al Signore Egli è Padre e Padre tenerissimo di tutti, non dubito che terrà presente il povero nostro Istituto che non è meno di S.Ecc. che del compianto Mons. Capretti. A lui mi affido pienamente”.
Pur essendo convinto che le cose potevano andare diversamente, egli accetta la decisone del Vescovo con umile e sincera obbedienza, lasciando le cose nelle mani della Provvidenza.

3. Non sentirsi benefattore

Il Padre era un manzoniano. Egli citava sovente il Manzoni per dare forza ad alcune verità evangeliche che gli stavano particolarmente a cuore. A questo proposito rileggeva volentieri per sé e per i suoi collaboratori quella predica che il Manzoni, nei Promessi Sposi mette sulle labbra di Padre Felice, quando parla ai guariti di peste.

Sono parole che si dovrebbero dire ai ragazzi, quando hanno terminato la loro permanenza tra di noi: “Per me e per tutti i miei compagni che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servire Cristo in voi, io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo adeguatamente adempito un sì grande ministero. Se la pigrizia, l’indocilità della carne ci ha reso meno attenti alle vostre necessità, non pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevole tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva; se la nostra fragilità ci ha fatto trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandalo: perdonateci!Così Dio perdoni a voi ogni debito e vi benedica!”

Sentiva di dover crescere in umiltà per non pensare d’essere un benefattore, dal momento che non era che un servo che aveva avuto il privilegio di essere chiamato a servire il suo Signore nei ragazzi.

Non poteva vantarsi d’aver fatto del bene, perché sapeva di dover chiedersi prima se aveva servito Lui o se aveva promosso la propria immagine, se aveva servito con umiltà il suo Signore o se aveva maltrattato i suoi figli credendosi a loro superiore o migliore, se aveva servito anche quando comandava o se aveva comandato anche quando diceva di servire. O per usare le parole di Padre Felice: “Sentendo che la vita è un dono suo, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, e la impieghiamo nelle opere che si possono offrire a Lui”. L’umiltà è entrare nella verità essenziale delle cose: è comprendere che servire il prossimo bisognoso è servire il Signore, e ciò va fatto con tutta l’attenzione, la venerazione e l’amore che merita. E questo è un privilegio, perché servire a Lui è regnare.

4. Vera e falsa umiltà

Mentre trovava grande stima e appoggio nei laici, sentiva che una parte del clero non aveva grande fiducia nelle sue capacità di realizzatore, specie dopo la separazione da mons.Capretti, ritenuto la mente. Che cosa poteva fare lui, povero e senza esperienza? Pochi si aspettavano da lui tanta abilità e capacità imprenditoriale e autorevolezza morale…

L’amico P. Zanetti avendo sentito del prodigioso sviluppo dell’opera nel primo decennio, informato anche da un fratello monsignore in Duomo, lo mette in guardia, scrivendogli preoccupato dall’India: (attento) “che lo sviluppo dato in così breve tempo a tante opere, sia troppo repentino, perché sapete che substantia festinata minuitur (Ciò che è accumulato in fretta dura poco). Credo che vi troviate non solo molto occupato, ma anche quasi esausto. Permettete una parola da amico. Non dubito punto che mentre attendete agli altri, tralasciate voi stesso, ma siccome so che la tentazione può occorrere di fare meno di ciò che dobbiamo pel nostro spirituale progresso quando siamo eccessivamente preoccupati per gli altri, permettetemi che vi dica da vero amico che la principale carità comincia da noi stessi”.Lo invitava insomma alla prudenza e a curare anche la sua personale santificazione…

Lo stesso Capretti gli aveva scritto: “Nei tuoi santi e forse anche soavissimi slanci, dovresti cercare qualcuno che servisse un poco di zavorra alla navicella, per evitare il naufragio”. Gli raccomandava insomma d’essere prudente e di non fare passi troppo lunghi per “non fare naufragio”. Ma il Padre sapeva ben distinguere la vera dalla falsa umiltà:
“E’ vero che posso sembrare a tratti imprudente, e forse lo sono. Ma non riesco a stare con le mani in mano quando vedo i ragazzi che soffrono, quando vedo la cattiveria diffondersi, quando vedo “tanto egoismo domestico e sociale”, tante necessità urgenti. Subito mi domando: che cosa posso fare? E’ vero che posso sembrare presuntuoso, perché vorrei risolvere questi problemi, io, senza mezzi e senza gli appoggi che contano. Ma se non avessi avuto questa passione o ossessione, non avrei mai fatto nulla.

E così mi dispiace di non essermi lasciato condurre sufficientemente da questo impulso interiore, anche se non mi dispiace d’essermi circondato col tempo da buoni amministratori e consiglieri che hanno sopperito ai miei difetti e inadeguatezze”. Mi sono sempre considerato il servo che ha ricevuto un solo talento, ma non ho voluto seppellirlo anche a costo di sentirmi criticato come utopista, sognatore e altro, proprio per non sentirmi dire la dura condanna che il padrone ha dato al servo che ha coperto la sua pigrizia con la falsa umiltà o la scusante della prudenza reverenziale. Non seppellire nulla, ma far fruttificare tutto per la gioventù” (Dal “Diario)..

E di fronte al mare di tribolazioni, né poche, né piccole, confessava ca\ ndidamente: “Anche di questo benedico il Signore, perché mi servono mirabilmente a tenermi sempre molto basso, terra a terra e affidarmi, fiduciosissimo nelle sole amorosissime braccia della Divina Provvidenza”. Non andava alla ricerca degli applausi,o della gloria degli uomini, ma poteva dire: “Sono un miserabilissimo, ma il Signore mi dà sempre la grazia di non cercare che la sua gloria unicamente”

5. Sa chiedere scusa e rispettare tutti, anche nei momenti di tensione
P. Serioli riferisce che in una riunione il Padre aveva richiamato energicamente P. Alberti, economo. “Io, giovane sacerdote mi permisi di fargli osservare che la riprensione mi sembrava un po’ troppo forte. Ricordo che egli, senza esitare, chiese perdono dinanzi a tutti”. Riconosceva di poter sbagliare e di aver sbagliato, con prontezza, dando un forte esempio di umiltà ai presenti . Sapeva e metteva in pratica l’ammonimento di San Paolo: “Il sole non tramonti sulla vostra ira”. Anche nel momento di massima tensione, non si lascia sfuggire una parola che non sia meno che rispettosa. Esemplare è il comportamento evangelico, degno di due santi, di Capretti e di Piamarta in un momento delicato dei loro rapporti, causa una seria divergenza sull’impostazione del futuro Istituto Artigianelli.

Capretti invia a Piamarta due lettere in cui gli dice chiaro: se vuoi andare avanti, paga tu…Ma poi conclude: “Guardiamo e preghiamo entrambi che in tutto questo non entri lo zampino dell’amor proprio, zampino di cui io non posso certo negare le tentazioni per conto mio. Il Signore allora illuminerà e farà finire bene ogni cosa”. E Piamarta: “Sa il Signore quel che desidererei offrirle, onde attestarle la venerazione,l’affetto, la gratitudine che per tanti titoli le debbo”…”Sempre a Lei figlio ossequiosissimo e pienissimamente sommesso…infimo dei suoi figli”.

I santi possono avere idee diverse, ma si incontrano nell’umiltà e nel rispetto reciproco. E qui potremmo aggiungere alcune delle sue espressioni più frequenti. Ma forse è bene fermarsi a riflettere sui segni tangibili dell’umiltà di P. Piamarta, sul suo saper ringraziare, obbedire, non sentirsi benefattore, non confondere la vera con la falsa umiltà,saper chiedere scusa, tutti segni verace di una autentica umiltà. E concludere con le parole di un ex alunno: ”Merita gli onori degli altari per la sua umiltà”.

6. Il mio tricorno

I collaboratori del Padre insistevano sulla sua allergia a farsi fotografare. Possiamo concludere con questa variazione sul tema dell’umiltà: “In occasione del XXV dell’Istituto, sono stato costretto a posare per il ritratto fotografico di gruppo, assieme agli alunni. Detesto questa moda di fotografare e di farsi fotografare. Mi dicono che è per ricordare e per documentare. Mi sollecitano di accettare per far piacere ai ragazzi che porteranno con sé questo bel ricordo della loro giovinezza. Ho ceduto per accontentare i ragazzi. Quanto alla documentazione ho dei dubbi: le cose del passato si guardano con curiosità e subito annoiano, quando non fanno sorridere. Di quello che appare dal mio ritratto è più facile che resti il mio tricorno che le mie sembianze. Onore dunque al mio tricorno. Ma per poco perché anche lui passerà.“Vanità delle vanità, tutto è vanità”, dice l’Ecclesiaste, “tranne che amare Dio e a Lui solo servire”, aggiunge l’aureo libretto dell’Imitazione di Cristo. Non mi resta che amare Lui e i fratelli, per salvarmi dalla infinita vanità del tutto. E così posso pensare che se ho fatto la fotografia di gruppo per amore dei ragazzi, mi sono salvato dalle vanità! Che grande cosa è l’amore: salva ogni cosa! Caro tricorno, non pensiamoci più e siamo lieti d’essere fotografati con i nostri ragazzi” (Dal Diario).

Padre Pier Giordano Cabra

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